Thursday, August 23, 2007

Scarpe e comunismo.

Quell'inverno del '64 era stato particolarmente rigido nella sua città.
Anna possedeva solo un paio di scarpe con i tacchi. Lei aveva diciassette anni e voleva mettersi le scarpe con i tacchi. A rocchetto come si usavano allora.
Le uniche scarpe con i tacchi di Anna erano estive.
La domenica tutte le sue amiche andavano a messa in centro, in Duomo, e lei con loro.
Fuori le aspettavano i ragazzi, che in chiesa non entravano. Le aspettavano per accompagnarle a casa, fumando sigarette comperate, a cinque a cinque, in bustine di carta velina. Quasi un rituale quegli incontri, cui era impensabile mancare. Poi ci sarebbe stato il pomeriggio per andare in giro, in qualche dancing di periferia o a qualche festino in casa di amici.

Anna frequentava una scuola di ricchi, ma lei non era ricca.
Suo padre faceva l'operaio specializzato, ma pur sempre operaio, nelle ferrovie dello stato e sua madre, come tutte le madri di allora, stava a casa.
Le amiche avevano pellicce e vestiti di sartoria. La sua sartoria era sua madre , bravissima a rivoltare cappotti e a mettere insieme la lana con la stoffa facendo dei capolavori grazie ai quali Anna non sfigurava mai.
Ma le scarpe...le scarpe erano un problema.
Le sue uniche scarpe con il tacco erano estive. E allora Anna raccontava a tutti che lei non aveva freddo e che usava quelle scarpe verdi , aperte ai lati, perché erano in tono con il loden che sua mamma le aveva fatto e che era veramente particolare, ammirato da tutte. Lei alle volte raccontava che non era sua mamma l'artefice, ma una sarta speciale, di cui non diceva il nome, e che stava in un'altra città.
Ma le scarpe erano estive. E lei aveva freddo...tanto freddo. Spesso c'era la neve e la strada, per andare e tornare a piedi, era lunga.
Quando arrivava a casa quasi non sentiva più i piedi, le dita le diventavano violacee e faceva di tutto per scaldarsi senza che le venissero i geloni.
Doveva essere pronta per il pomeriggio, per andare a ballare, e le scarpe erano sempre e solo le stesse.
Quella dignitosa miseria l'aveva accompagnata lungo tutto il liceo, poi, gli ultimi anni, aveva iniziato a fare qualche lavoretto, ma allora, in provincia, per una ragazza che studiava, era impensabile trovar lavoro.
O lavori o studi. Se non puoi permetterti gli studi vai a lavorare.
Avevano faticato tanto, sua madre e lei per racimolare un po' di soldi per un paio di scarpe veramente belle, scarpe con il tacco.
Anna non voleva scarpe qualunque, voleva le scarpe come quelle delle sue amiche, altrimenti avrebbe continuato con quelle estive.
E così alla fine si era conquistata le sue scarpe con il tacco, invernali, di vernice nera. Ma quella era solo la prima, piccola battaglia che Anna avrebbe combattuto per vivere la sua povertà con orgoglio.

Il crollo, o la crescita ca seconda di come si guarda, era avvenuto in quinta quinta.
Tutti, quasi tutti, tutti meno tre su trentacinque, andavano in gita scolastica. A Capri. Con il pullman. Lei no.
Anche questa volta non c'erano soldi e questa volta Anna non riusciva a capire. Non riusciva a farsene una ragione.
A nulla erano serviti pianti interminabili, preghiere, promesse. No era e no era stato. E così lei, assieme ad altri due ragazzi, era rimasta a casa. Quei giorni non era nemmeno andata a scuola perché l'avrebbero parcheggiata in altre classi dove sicuramente le avrebbero posto mille perché ...e lei cosa poteva rispondere..che era povera?...che suo padre non aveva i soldi...? e forse più di qualcuno l'avrebbe commiserata.
NO!! la commiserazione no.
In quei giorni aveva pensato che scuola fosse mai quella in cui non tutti potevano fare le stesse cose, non tutti potevano accedere alle stesse opportunità.
Cominciò a leggere tutto quello che le capitava sottomano sulle differenze sociali.
Un po' alla volta capì che questa scuola, questa società non andava bene. Anzi era uno schifo! Capì che le regole servivano solo per i poveri e che il figlio del dottore aveva molte più chance di lei. Capì che macchina, vestiti e viaggi erano simboli di un benessere ostentato cui lei non poteva accedere. Incominciò anche a chiedersi se volesse accedervi in quel modo: essere la figlia di, tonta, bellina, con cui pomiciare ad una festa, senza parlare, solo di calcio, se capitava..
No, non si ritrovava in quel modo di essere. Lei aveva una testa.
La chiamavano già la contestatrice rompiballe perché in classe diceva sempre la sua.
Più di qualche ragazzo le faceva la corte, ma poi si spaventava del fatto che lei volesse e sapesse discutere. Si spaventava di non trovarsi davanti la solita bella bambolina scema e così si allontanava.
Aveva avuto varie storie ma un solo vero grande amore. Lui sciava, non pensava ad altro che a vincere gare. Lei non aveva soldi per andare a sciare. Ma lui, contrariamente agli altri, non le faceva pesare niente, nemmeno il suo voler sempre sapere. Lui era uno di poche parole, diceva il minimo indispensabile, ma sorrideva con dolcezza e la prendeva così com'era.
Con lo scorrere dei mesi e l'accumularsi di pagine e pagine lette con accanimento su libri scovati nella biblioteca cittadina, Anna capiva sempre più che c'era un mondo che non conosceva, in cui le scarpe con i tacchi contavano poco, dove uno poteva valere per i suoi pensieri.
La difficoltà quasi insormontabile, in quel mondo di allora, era il suo essere donna. Le donne che discutono, leggono, criticano e propongono spaventavano e non venivano accettate.
Ma Anna capì che non voleva vivere in un mondo assurdo come quello in cui stava avanzando, capì che doveva fare assolutamente qualche cosa e che il suo essere donna non l'avrebbe rallentata.

Anna aveva diciotto anni.
Dalle lacrime passò alla rabbia e poi alla rivolta e poi alla consapevole entusiasta coscienza che un altro mondo era possibile, un mondo in cui tutti avrebbero potuto realizzarsi, avere le stesse opportunità, non competere per tutto e per niente....... essere, insomma, compagni.
E fu così che Anna diventò comunista.

allora e oggi

primo maggio 1997
Una bandiera della pace
con i colori sbagliati
cucita da donne giuste,
portata da donne orgogliose .
Dieci metri di stoffa ondeggiante al vento
per mille desideri e una speranza cocciuta.
Una bandiera della pace
stesa per terra, in Piazza Grande,
con sopra appoggiato il futuro.
Una bandiera che ha attraversato le piazze d'Italia
per vent'anni a chiedere pace, che non è venuta.
Ora è finita nelle mani del futuro.
Dovrà ancora lottare molto,
come le madri che l'hanno cucita
ma saprà di non essere solo.

Il mondo di un ciocco




L'antica danza


Tre giorni che non ti respiravo, Trieste mia


Tre giorni a guardarti dai vetri appannati, avvolta nel tuo mantello di ghiaccio e di neve.

Bella, inavvicinabile, affascinante.


Tu stavi oltre il vetro ma non volevi lasciarmi sola.

E allora la tua bora si e' insinuata tra gli infissi,

facendo dondolare le tende e portandomi refoli che odoravano di terra indurita.

Hai picchiato alle mie finestre con granelli di ghiaccio,

ma appena ho cercato di aprirti la porta hai esagerato con il tuo vento impetuoso

ed i vetri si sono richiusi.


Tu di la, io di qua,

a guardarti dal vetro appannato scintillare negli alberi, nelle strade,

in un silenzio rotto solo dalle grida del vento.


Ferma nel tempo hai ripetuto una danza antica con cui alle volte inviti gli umani a corte.

Ma nessuno conosce più l'antica danza che li spaventa.


Allora tu hai ripreso l'abito di sempre,

hai rallentato le tue frenetiche piroette, ti sei spogliata del bianco mantello,

sei tornata quella di tutti i giorni.

Io ho aperto le finestre, ho percorso le tue strade ti ho di nuovo respirata.


Mi resta il rimpianto di non aver saputo danzare con te,

nelle tue strade ghiacciate tra le braccia del tuo possente vento,

l'antica danza dell'inverno di Trieste.

Monday, August 20, 2007

Cercasi Titolo


La mia città

Non ancora donna, mi hai accolta con graffi di cristallo
seminati nel tuo vento di bora.
Mi hai intimorita e stupita,
ma la bambina curiosa ti ha cercata.
E così ti ho trovata: una gatta sonnacchiosa,
acciambellata attorno ad un arrogante mare dai mille azzurri,
l'occhio socchiuso verso il rosso scoppiettante del sommacco,
le orecchie tese a captare i rumori che giungono dai confini del tempo.
I tuoi vecchi altezzosi,
i tuoi pochi bambini,
le tue signore impellicciate,
le tue signore luccicanti al sole,
la tua libertà ambigua,
mi hanno conquistata.
Sono scivolata in caffè antichi,
studiando tra scacchi e signori perduti in nebbiosi ricordi.
Sono cresciuta, sono diventata donna
e non ti ho più lasciata.